Il Decreto del Fare introdusse nel d.P.R. 380/2001, il c.d. Testo Unico dell’Edilizia, un articolo che proponeva delle deroghe al regime delle distanze in edilizia.
Ma tali previsioni legislative erano davvero così innovative rispetto al passato? Sono passati alcuni anni e recentemente è intervenuta sull’argomento la Corte Costituzionale con una sentenza del luglio scorso.
La decisione dei Giudici delle Legge conferma un’interpretazione già ampiamente prevista, in tempi non sospetti, da Romolo Balasso e Pierfrancesco Zen, autori del best seller di Maggioli Editore Il regime delle distanze in edilizia giunto alla quinta edizione aggiornata.
Deroghe alle distanze tra costruzioni
Come noto, il c.d. decreto del fare (d.l. 69/2013, poi legge 98/2013) ha inserito l’art. 2-bis nel testo unico edilizia, rubricato Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati.
Nella IV edizione del volume Il regime delle distanze in edilizia (ed. Maggioli, IV edizione, marzo 2014), l’avv. Zen ed io abbiamo argomentato questa novella legislativa proponendo due linee interpretative, giungendo ad evidenziare che, sostanzialmente, in entrambi i casi non si ravvedeva una portata innovativa rispetto alla normativa previgente, e cioè rispetto alla facoltà concessa con l’ultimo comma dell’art. 9 del DM 1444/68.
Nella V edizione del predetto volume (ed. Maggioli, settembre 2015), abbiamo anche riportato alcune iniziative regionali sostenendo che “l’art. 2-bis si limiterebbe a consentire leggi regionali derogatorie al d.m. n. 1444/68 in via di “principio” rimettendone l’operatività dei suoi precetti a “strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio” (cfr. pag. 270).
In buona sostanza, l’art. 2-bis del testo unico edilizia, a nostro avviso, si limitava a recepire l’indirizzo giurisprudenziale della Consulta, e cioè del Giudice delle Leggi.
Il 15 luglio 2016 è stata depositata la sentenza della Corte Costituzionale n. 178 (Pres. Grassi, Rel. Morelli), relativa al giudizio di legittimità costituzionale in via principale dell’art. 10 della legge della Regione Marche 13 aprile 2015, n. 16, con cui è stata disposto:
«In attuazione dell’articolo 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), gli edifici esistenti, che siano oggetto di interventi di qualificazione del patrimonio edilizio esistente, di riqualificazione urbana, di recupero funzionale, di accorpamento e [in luogo di «ovvero»] di ogni [«altra», parola espunta] trasformazione espressamente qualificata di interesse pubblico dalla disciplina statale e regionale vigente, possono essere demoliti e ricostruiti all’interno dell’area di sedìme o aumentando la distanza dagli edifici antistanti, anche in deroga ai limiti di cui all’articolo 9 del decreto del Ministro dei Lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 […]».
La Corte Costituzionale ne ha sentenziato la illegittimità costituzionale riportando in diritto la seguente argomentazione:
3.1.– Va ribadito, in premessa, che, in tema di disciplina delle distanze fra costruzioni, il “punto di equilibrio” – tra gli ambiti di competenza, rispettivamente, “esclusiva”, dello Stato (in ragione dell’attinenza di detta disciplina alla materia «ordinamento civile») e, “concorrente”, della Regione, nella materia «governo del territorio» (per il profilo della insistenza dei fabbricati su territori che possono avere, rispetto ad altri, specifiche caratteristiche, anche naturali o storiche) – si rinviene nel principio, estraibile dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 (che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile: sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011), per cui sono ammesse distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Principio, questo, sostanzialmente poi recepito dal legislatore statale con l’art. 30, comma 1, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, della legge 9 agosto 2013, n. 98, che ha inserito, dopo l’art. 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 2-bis, a norma del quale «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Ne consegue che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegua chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005). Diversamente, «le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenza n. 134 del 2014).
In altri termini, quel nostro convincimento espresso nel volume citato trova ora conferma nella sentenza suddetta: l’art. 2-bis del testo unico edilizia non avrebbe portata innovativa, si limiterebbe a recepire il costante principio espresso dalla Consulta in tema di distanze tra fabbricati.